Il nostro codice civile disciplina le ipotesi in cui, in un contratto a prestazioni corrispettive, l’inadempimento di una delle parti sia tale da comportare come conseguenza la risoluzione del contratto.
In tal senso l’art. 1453 c.c. prevede che la parte adempiente, di fronte all’inadempimento dell’altra, possa a sua scelta chiedere la risoluzione del contratto o l’adempimento della prestazione, fermo in ogni caso il diritto al risarcimento del danno subito.
RISOLUZIONE GIUDIZIALE DEL CONTRATTO
La “richiesta” cui fa riferimento la norma appena richiamata altro non è che l’azione giudiziaria che la parte adempiente eserciterà nei confronti dell’inadempiente per ottenere l’adempimento o la risoluzione; in questi casi, pertanto, si parla di risoluzione del contratto “giudiziale”, in quanto oggetto di accertamento e dichiarazione da parte di un giudice che emanerà la sentenza.
Per evitare di affrontare un giudizio, con i noti tempi processuali, le parti possono concordare, al momento della stipula del contratto, l’inserimento della clausola risolutiva espressa, che l’art. 1456 c.c. definisce come la clausola con cui “i contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite”.
RISOLUZIONE DI DIRITTO
L’effetto di tale previsione contrattuale è che, in caso di inadempimento, l’altra parte può avvalersi della clausola risolutiva, semplicemente comunicandolo all’inadempiente, con la conseguenza che il contratto si intenderà risolto di diritto, senza doversi intentare un giudizio di accertamento.
Secondo la giurisprudenza della Cassazione, che si è più volte pronunciata sull’argomento, perché la clausola risolutiva possa dirsi validamente apposta in un contratto è in primo luogo necessario che siano specificati i casi in cui l’inadempimento è ritenuto di tale gravità da comportare la risoluzione automatica del contratto, non potendo ritenersi valida una previsione di generico inadempimento.
VESSATORIETA' DELLA CLAUSOLA
Va detto, inoltre, che è molto comune la previsione della clausola risolutiva espressa nei contratti “standard”, cioè predisposti mediante moduli prestampati da imprese di grandi dimensioni e destinati ad una molteplicità di contraenti.
A tal proposito si dibatte, tra gli addetti al settore, circa la natura vessatoria – o meno – della clausola risolutiva espressa; infatti, solitamente la clausola è prevista a favore dell’impresa e in danno del consumatore, il quale si troverà in posizione svantaggiata rispetto alla controparte, che ha un potere contrattuale più forte.
Per questo motivo si è soliti inserire la clausola nell’elenco delle clausole “vessatorie”, soggette alla specifica approvazione per iscritto ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c. che, per essere valide, devono essere poste ben in evidenza nel contratto, richiamate espressamente e sottoscritte specificatamente.
Con riferimento al codice del consumo è maggioritaria l’interpretazione secondo cui il carattere di clausola abusiva o meno discende dalla valutazione in concreto nel contesto del contratto; l’inefficacia della clausola risolutiva si avrà solo se essa determina un’alterazione dell’equilibrio contrattuale, nel senso che inadempienze anche minime del consumatore possono provocare la risoluzione, mentre al professionista è lasciata ampia libertà di ritardare o comunque variare l’esecuzione della prestazione.