Nel corso di un rapporto di lavoro dipendente tra privati accade di frequente che il lavoratore venga “ceduto” dall’azienda originaria ad altra che vi subentra nello svolgimento dell’attività di impresa.
Si intende per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato, compresi l'usufrutto o l'affitto di azienda.
CESSIONE D’AZIENDA O DI RAMO D’AZIENDA
Per quanto riguarda la cessione vera e propria essa si attua con la stipula di un contratto, redatto da un notaio nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, tra impresa cedente e cessionaria, in base al quale la seconda acquista dalla prima il complesso aziendale o una parte di esso.
Circa gli effetti della cessione sui rapporti di lavoro la legge prevede che essi proseguono con il cessionario, salvo risoluzione avvenuta prima della cessione; per le mensilità non pagate risponderanno in solido sia il cedente che il cessionario, a cui il lavoratore potrà rivolgersi per ottenere quanto a lui spettante.
Secondo l’art. 2112 del codice civile il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario.
IL T.F.R.
Riguardo al trattamento di fine rapporto la normativa in materia consente di ritenere che esso sia dovuto al lavoratore dall’azienda subentrata a seguito di cessione, solo al momento della risoluzione del rapporto di lavoro.
Tale conclusione è rafforzata dalla giurisprudenza di legittimità, che smentisce la tesi, sostenuta da una parte della dottrina, della “frazionabilità” del t.f.r., da intendersi come possibilità per il lavoratore di chiedere al cedente la quota di t.f.r. maturata fino al momento della cessione d’azienda ed al cessionario la quota maturata successivamente.
LA CASSAZIONE SUL PUNTO
A chiarire l’argomento è intervenuta di recente la Corte di Cassazione sez. lavoro, con la sentenza n. 23775/2018, che affronta la materia anche con riferimento alla liquidazione, da parte del Fondo di Garanzia I.N.P.S., delle somme dovute a titolo di t.f.r. dal datore di lavoro.
Tralasciando quest’ultimo aspetto, di cui abbiamo trattato in altro articolo, soffermiamoci sul punto relativo all’obbligazione di pagamento del t.f.r. in caso di cessione d’azienda.
Secondo la Cassazione, il diritto al trattamento di fine rapporto sorge con la cessazione del rapporto di lavoro (Cass. n.2827 del 2018 cit.; Cass. 23 aprile 2009, n. 9695) e non è esigibile al momento della cessione dell'azienda.
In particolare, alla cessazione del rapporto il datore di lavoro cessionario risponderà per l'intero t.f.r. (in via diretta quanto alla quota di t.f.r. maturata dopo la cessione, in via solidale quanto alla quota maturata precedentemente); invece il datore di lavoro cedente risponderà solo per la quota di t.f.r. maturata prima della cessione.
RISOLUZIONE DEL RAPPORTO
Il presupposto della liquidazione del t.f.r. è in ogni caso la risoluzione del rapporto di lavoro, come si ricava dalla lettura dell’art. 2120 c.c. che, al primo comma, dispone che “in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto a un trattamento di fine rapporto”; la norma prosegue specificando che tale trattamento si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5.
Da tale principio consegue che nell’ipotesi di cessione d’azienda il lavoratore non potrà pretendere la quota di t.f.r. maturata fino a quel momento dal primo datore, in quanto il rapporto di lavoro non termina ma prosegue in capo al nuovo datore, che sarà tenuto alla liquidazione dell’intero t.f.r. al momento della cessazione del rapporto medesimo.
IPOTESI DEL LICENZIAMENTO APPARENTE
Nella pratica, tuttavia, è possibile che il lavoratore venga licenziato per essere nuovamente assunto dalla seconda azienda, operazione che spesso risponde ad esigenze contabili e finanziarie ma che può anche mascherare l’intenzione di salvaguardare il nuove datore da possibili azioni da parte del lavoratore per pendenze pregresse; in questi casi, dal punto di vista formale, il t.f.r. fino ad allora maturato deve essere pagato dalla prima azienda, proprio perché il rapporto di lavoro è cessato con il licenziamento.
All’eventuale inadempimento del datore di lavoro originario, che si dimostri insolvente nel pagamento del t.f.r., il lavoratore può far fronte citando in giudizio entrambe le aziende e chiedendo al tribunale di accertare, se ne ricorrono i presupposti, che si è trattato di una cessione d’azienda apparente, ove si possa dimostrare che la seconda azienda è, di fatto, la stessa che aveva assunto in orgine il lavoratore, pur avendo mutato la denominazione.
In questa ipotesi il rapporto di lavoro non si è interrotto ma è effettivamente proseguito in capo alla seconda impresa; in caso di accoglimento della domanda, dunque, sarà quest’ultima a rispondere delle obbligazioni inadempiute dal datore cedente, compreso il pagamento del t.f.r.