Il mondo del lavoro nel nostro Paese, da oltre un ventennio, è caratterizzato da una sempre maggiore precarietà, favorita anche dal ricorso a forme di collaborazione che prescindono dalle tutele tipiche del rapporto di lavoro subordinato; in molti casi ciò si traduce in un vantaggio per il datore di lavoro, il quale può svincolarsi dagli obblighi previsti dalla legge, anche in materia previdenziale, avvalendosi comunque di collaboratori che, di fatto, sono alle sue dipendenze.
Collaboratori come dipendenti
È il caso delle collaborazioni a progetto, delle prestazioni d’opera e, in generale, di tutte quelle ipotesi in cui il lavoratore, in possesso di partita iva, lungi dallo svolgere in forma prevalente un’attività imprenditoriale o autonoma, presta la propria attività in favore del datore di lavoro; se la collaborazione si protrae negli anni, assumendo i connotati di un lavoro dipendente, in presenza di certi requisiti delineati dalla giurisprudenza, si può configurare un rapporto di subordinazione, di cui il lavoratore può chiedere l’accertamento ricorrendo al tribunale, con le conseguenze che ne derivano riguardo a differenze retributive e altre spettanze economiche. Dal punto di vista normativo, l’art. 2094 del Codice civile definisce lavoratore subordinato chi, in cambio di retribuzione, si obbliga a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore.
Requisiti della subordinazione
Dalla lettura della norma, relativa in particolare al settore privato, emerge che il requisito principale della subordinazione è l'assoggettamento del lavoratore alle altrui direttive, con obbligo di eseguire la prestazione per cui è stato assunto; si parla, in proposito, di “etero-direzione”, cui si affianca in genere l’”etero-organizzazione”, cioè l’assoggettamento del lavoratore alle modalità di organizzazione del lavoro dettate dal datore.
Altri requisiti tipici del lavoro subordinato sono il rispetto dell’orario di lavoro imposto dal datore, lo svolgimento dell’attività presso una sede determinata o comunque concordata con il datore, la retribuzione fissa. Si tratta di elementi che, accanto ad altri, consentono di accertare in giudizio l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato anche nei casi in cui il lavoratore sia un libero professionista o un autonomo ma, di fatto, sia alle dipendenze di un altro soggetto. Il confine tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, tuttavia, non è sempre facile da individuare; sul punto si è espressa più volte la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha indicato alcuni criteri utili all’accertamento della natura del rapporto di lavoro. Riportiamo, di seguito, alcune pronunce giurisprudenziali nelle quali sono stati delineati gli indici rivelatori di un rapporto di lavoro dipendente, laddove siano presenti contratti di collaborazione autonoma, come pure in assenza di qualsivoglia contratto e di lavoro “in nero”.
Casistica e giurisprudenza
In un caso relativo ad un rapporto di lavoro tra un’insegnante di scuola e l’istituto dove la stessa insegnava, la Suprema Corte ha affermato che ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quando l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della loro natura intellettuale o professionale) e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario determinato, del conseguimento a scadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo, dato dal datore di lavoro, dell'assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale, elementi che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente con indizi probatori della subordinazione (Cass. n. 9252/2010).
Se nella causa appena richiamata la lavoratrice si era vista riconoscere le proprie istanze, a conclusione diversa sono giunti i giudici in merito ad un rapporto di lavoro tra una biologa e un laboratorio di analisi di una casa di cura; in questo caso, sulla base dei medesimi principi innanzi richiamati, la subordinazione era stata esclusa, in considerazione della possibilità che la lavoratrice aveva di scegliere il turno da effettuare, di esercitare altrove l'attività professionale, nonché la circostanza dell'erogazione di compensi variabili in rapporto al numero di presenze e di reperibilità (Cass. n. 5436/2019).
Studi professionali
È stata, viceversa, riconosciuta la subordinazione del collaboratore di studio legale, privo del titolo di avvocato, che per molti anni aveva prestato la sua attività in favore del titolare dello studio; in questo caso la Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte d’appello, che aveva ritenuto indici di subordinazione, tra gli altri, il fatto che il lavoratore trattasse solo pratiche dello studio e non proprie, svolgesse attività lavorativa prevalente all’interno dello studio, rispettando l’orario di lavoro imposto dal titolare, dal quale riceveva quotidianamente direttive circa l’attività da svolgere (Cass. n. 22634/2019).
Riguarda sempre la collaborazione prestata all’interno di uno studio legale, la decisione con cui una lavoratrice si è vista riconoscere le tutele derivanti dalla subordinazione, con il riconoscimento della qualifica di segretaria, dopo aver prestato per 6 anni la propria attività; in questo caso il rapporto dipendente è stato accertato, pur in presenza di un accordo inziale a titolo diverso, giustificato, dalla parte resistente nel giudizio, in virtù di un rapporto di amicizia con la lavoratrice (Cass. n. 23324/2021).