Uno degli aspetti più rilevanti delle delibere condominiali adottate dall’assemblea è la possibilità, per ciascun condomino, di opporsi ad esse, avvalendosi di diversi tipi di azioni giudiziarie, a seconda del tipo di invalidità che inficia la delibera stessa.
In dottrina ed in giurisprudenza, infatti, si è soliti distinguere tra delibere inesistenti, delibere nulle e delibere annullabili, con diversi effetti collegati a ciascuna categoria.
PRINCIPI GIURISPRUDENZIALI
Per comprendere meglio le distinzioni anzidette è utile fare riferimento ad una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 10586 del 16.04.2019, che, oltre a sintetizzare l’argomento, fa il punto sui criteri di ripartizione delle spese condominiali oggetto di delibera.
I giudici di legittimità spiegano il significato di delibere “inesistenti”, precisando che un atto è giuridicamente inesistente se manca degli elementi "rudimentali" o essenziali, tale che non è possibile identificarlo e qualificarlo come atto giuridico.
Delibere “nulle” sono quelle contrarie alla legge, con oggetto impossibile o illecito, cioè contrario alla legge o all’ordine pubblico, con oggetto non rientrante nella competenza dell’assemblea, nonché le delibere che incidono sui diritti dei singoli condomini su cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ogni condomino.
Nell’elenco delle delibere annullabili rientrano, invece, quelle viziate per difetti formali, come la mancanza del quorum costitutivo o deliberativo o l’irregolare convocazione dei condomini, in generale quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle affette da irregolarità nel procedimento di convocazione.
DIVERSE FORME DI TUTELA
E’ importante inquadrare correttamente il vizio che inficia la delibera che si vuole impugnare, poiché la legge prevede procedure e termini diversi a seconda del tipo di invalidità.
Nei casi di inesistenza – in verità, molto rari – e di nullità, infatti, il condomino che ritiene di essere stato danneggiato dalla decisione può agire in qualsiasi momento e chiedere che vengano adottati i provvedimenti opportuni nel suo interesse; l’annullabilità, invece, ai sensi dell’art. 1137 c.c., può essere fatta valere solo impugnando la delibera – cioè opponendosi ad essa tramite ricorso in Tribunale – entro 30 giorni dalla sua adozione per il caso di condomino presente all'assemblea o, nel caso in cui il condomino fosse assente, entro 30 giorni dalla comunicazione del verbale d’assemblea.
DELIBERE RELATIVE ALLE SPESE CONDOMINIALI
Venendo alla delibere che hanno per oggetto la ripartizione delle spese condominiali la Corte di Cassazione precisa che se esse violano i criteri legali di ripartizione delle spese, stabiliti in particolare dall’art. 1123 c.c., possono ritenersi nulle, con gli effetti anzidetti.
L’art. 1123 c.c., in particolare, stabilisce che “le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione”; se, invece, si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell'uso che ciascuno può farne.
ERRORE DI CALCOLO DELLE SPESE
L’errore di calcolo nella ripartizione delle spese condominiali, siano esse desumibili o meno dal bilancio e/o dal consuntivo, oppure semplicemente deliberate, integra invece un vizio di annullabilità, che può essere fatto valere solo impugnando la delibera nei 30 giorni anzidetti.
Sulla base di tali premesse la Suprema Corte ha respinto il ricorso del condomino che, fin dal primo grado di giudizio, aveva preteso di far valere la dedotta “nullità” della delibera che poneva a suo carico alcune spese condominiali; i giudici di legittimità hanno motivato la decisione affermando che si trattava, piuttosto, di ipotesi di annullabilità, non fatta valere dal ricorrente nel termine di cui all’art. 1137 c.c. e, pertanto, non più proponibile.