Uno degli strumenti giuridici che l’ordinamento riconosce al creditore, che, nelle more del recupero del credito, abbia visto “sparire” i beni del debitore, il quale nel frattempo li ha venduti o comunque alienati a terzi, è l’azione revocatoria.
Lo scopo di questa azione giudiziaria è quello di far dichiarare dal giudice l’inefficacia, nei confronti del creditore che la esercita, degli atti dispositivi compiuti dal debitore; la sentenza di accoglimento della domanda revocatoria, pertanto, avrà come conseguenza quella di consentire al creditore di recuperare il suo credito e, nello specifico, di pignorare quei beni, anche se nel possesso di terzi.
Fallimento del debitore
Il medesimo scopo si ha nel caso di fallimento del debitore che, nell’esercizio della sua impresa, prima della dichiarazione di fallimento, abbia venduto gli immobili, come anche altri beni di sua proprietà, sottraendoli alla massa dei creditori; in questi casi è il curatore fallimentare, cioè l’organo nominato dal giudice per amministrare e liquidare il patrimonio, ad esercitare la revocatoria, chiamata, appunto “fallimentare”.
La norma di riferimento è l’art. 67 della legge fallimentare, che prevede la revocabilità degli atti a titolo oneroso, dei pegni e delle ipoteche, dei pagamenti effettuati dall’impresa prima del fallimento.
La norma prevede un doppio termine entro il quale il curatore può esercitare l’azione, a seconda che si tratti di pagamenti “anomali” (rispetto al prezzo o rispetto alla modalità di estinzione del debito), per i quali il termine è di un anno dalla dichiarazione di fallimento, o che si tratti di pagamenti normali o abituali, per i quali il termine è di sei mesi.
Per questi ultimi, inoltre, è previsto che, in corso di causa, il curatore debba provare che, al momento di ricevere il pagamento, il creditore dell’impresa fosse a conoscenza dello stato d’insolvenza dell’impresa; in mancanza di tale dimostrazione, la domanda di restituzione verrà rigettata.
Anteriorità degli atti dispositivi
Presupposto dell’azione revocatoria fallimentare, che si desume dall’insieme delle norme della legge fallimentare, è che gli atti dispositivi siano stati posti in essere dall’imprenditore prima della sentenza dichiarativa di fallimento.
Questo quanto confermano le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12476 del 24 giugno 2020, nella quale è stato confermato l’orientamento già espresso dalla giurisprudenza di legittimità, seppure con alcune precisazioni.
Nel caso esaminato dalla Suprema Corte il curatore del fallimento di una s.r.l. in liquidazione aveva chiesto che venisse dichiarata l'inefficacia nei confronti della massa, di alcuni atti dispositivi posti in essere dalla società (allora) in bonis nei confronti di altra società, della quale pure era sopravvenuto il fallimento, con conseguente restituzione del compendio aziendale che ne aveva costituito oggetto.
Il tribunale rigettava la domanda ritenendo inammissibile un'azione revocatoria proposta nei confronti di un fallimento dopo l'apertura del concorso, in virtù del principio della cristallizzazione del passivo fallimentare sancito dalla L. Fall., art. 52.
Le Sezioni Unite della Cassazione
Le Sezioni Unite confermano la decisione del Tribunale, precisando che, nel caso in cui l’azione revocatoria sia stata, dai creditori dell'alienante, introdotta prima del fallimento dell'acquirente del bene, essa, stante l'intangibilità dell'asse fallimentare in base a titoli formati dopo il fallimento (cd. cristallizzazione) - non può essere esperita con la finalità di recuperare il bene alienato alla propria esclusiva garanzia patrimoniale, poiché si tratta di un'azione costitutiva che modifica ex post una situazione giuridica preesistente.
In questo caso i creditori dell'alienante (e per essi il curatore fallimentare ove l'alienante sia fallito) possono insinuarsi al passivo del fallimento dell'acquirente per il valore del bene oggetto dell'atto di disposizione astrattamente revocabile.