L'imprenditore che si trova in stato d’insolvenza può tentare di ripianare la propria situazione debitoria, avvalendosi di procedure finalizzate a soddisfare, anche solo parzialmente, i creditori; quando, tuttavia, egli non è più in grado di far fronte al pagamento dei propri debiti è inevitabile il fallimento, disciplinato dal R.D. 16 marzo 1942 n. 267, successivamente modificato.
REQUISITI DI LEGGE
Abbiamo dedicato altri spazi all’approfondimento dei requisiti previsti dalla legge per l’assoggettamento alla procedura fallimentare; qui ricordiamo solo che l’art. 15 l.f., all’ultimo comma, stabilisce che non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dall’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore ad euro trentamila.
Il fallimento dell’impresa avviene a seguito di presentazione di ricorso al Tribunale, sezione fallimentare, competente per territorio, cioè quello del luogo dove l’impresa ha la sede principale; normalmente il ricorso è presentato da uno o più creditori dell’impresa ma può essere depositato anche dall’imprenditore in crisi o, nei casi a rilevanza penale elencati all’art.7 l.f., dal pubblico ministero.
SENTENZA DI FALLIMENTO
Segue una fase prefallimentare, nel corso della quale il Giudice designato valuta la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge per la dichiarazione fallimentare. Se dall’istruttoria emerge che l’impresa ha superato la “soglia di fallibilità” di cui all’art.1 l.f. (si veda articolo in proposito) ed ha debiti certi superiori ad € 30.000 il Tribunale dichiara il fallimento dell’impresa con sentenza che viene annotata nel Registro Imprese; in caso contrario la procedura si chiude con decreto che respinge il ricorso.
IMPRESE CESSATE
La dichiarazione di fallimento può riguardare anche le imprese che abbiano cessato la loro attività a seguito di liquidazione e che siano state cancellate dal Registro Imprese; a riguardo l’art. 10 l.f. prevede che gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro imprese se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo.
La norma da una parte tutela l'imprenditore, stabilendo un limite temporale per la dichiarazione di fallimento, dall’altro permette al creditore di potersi avvalere della procedura fallimentare anche quando la società ha cessato la sua attività ed è stata cancellata.
Può darsi, infatti, che il creditore insoddisfatto venga a conoscenza della cessazione dell’impresa solo successivamente, oppure che non abbia potuto soddisfarsi durante la liquidazione dell’attività; in tal modo egli potrà far valere le proprie ragioni di credito con l’ammissione al passivo fallimentare.
La norma in esame assume maggiore rilevanza nel caso in cui, anche dopo la cancellazione dell’impresa, vi siano beni di proprietà della stessa, la cui liquidazione in sede fallimentare possa permettere la soddisfazione dei creditori.
Si tratta di ipotesi non astratte, soprattutto nel caso di ditte individuali o nel caso in cui a fallire sia una società con soci illimitatamente responsabili, anch’essi assoggettabili al fallimento.
GIURISPRUDENZA DELLA CASSAZIONE
A tal proposito di rilievo è il principio espresso da Cass. n. 1593/2002, in base al quale la nascita di un'impresa individuale, cui quella collettiva trasferisca il proprio patrimonio, non preclude la dichiarazione del fallimento della società entro un anno dalla sua eventuale cancellazione dal registro delle imprese.
Quanto alla legittimazione processuale delle società di capitali, secondo un consolidato orientamento della Cassazione (Cass. n. 22547/2010, ripresa da Cass. 5688/2017) in caso di cancellazione, la legittimazione al contraddittorio nel giudizio fallimentare spetta al liquidatore sociale, poiché, pur implicando detta cancellazione l'estinzione della società ai sensi dell'art. 2495 c.c., nondimeno entro il termine di un anno da tale evento è ancora possibile che la società sia dichiarata fallita.