In cosa consiste il reato di truffa?
Il reato di truffa, di cui all’art. 640 c.p., consiste nell'induzione in errore di un soggetto, mediante l’utilizzo di artifizi o raggiri, col fine specifico di ricavare un ingiusto profitto procurando un danno altrui. La condotta può consistere sia in azioni che omissioni perpetrate in atti tanto materiali quanto psicologici, diretti a indurre in errore.
Ad esempio, se un individuo promette di vendere un oggetto, riceve il pagamento ma non provvede poi alla consegna, si potrebbe configurare il reato di truffa. Allo stesso modo sussiste il reato ascritto se una persona si presenta come un professionista qualificato convincendo la vittima a pagare per un servizio o un prodotto che non viene mai fornito.
La pena prevista per il reato è la reclusione da sei mesi a cinque anni e la multa da 516 a 26.000 euro. Tuttavia, la pena può essere aumentata se il reato viene commesso in modo pluriaggravato (ad esempio, se viene utilizzata una falsa qualità o se la vittima è una persona molto vulnerabile) o se vengono arrecati danni di una certa rilevanza economica.
Quando si concretizza la truffa?
Gli elementi, o meglio i comportamenti, necessari al fine della consumazione del reato, come sancito dalla normativa, sono essenzialmente due:
- gli “artifizi” ossia ogni simulazione o dissimulazione della realtà che crei una falsa apparenza volta ad alterare la conoscenza del soggetto passivo del reato, col fine esclusivo di indurlo in errore;
- i “raggiri” (tramite inganno) ovvero false finzioni che agiscono all'interno della sfera intellettiva e psicologica della vittima generando erronei motivi che ne determinano volontà e condotta.
Un altro elemento importante è che la vittima dovrà necessariamente cadere in errore tramite la truffa non essendo sufficiente l'astratta possibilità di idoneità.
Quando sussiste la truffa per il medico che visita intra moenia?
Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione n. 19129/2023 il medico è stato condannato in appello per l'ascritto reato - nella forma aggravata - in quanto avrebbe effettuato prestazioni mediche a pagamento in regime privatistico presso l'ospedale in ambulatori privati. Il problema sorge dal momento che il dottore, quale dipendente del medesimo ospedale, aveva un rapporto di esclusiva che gli avrebbe garantito il relativo diritto al pagamento dell'indennità.
L'imputato ha proposto appello sulla base della presunta omissione nel valutare i documenti dimostrativi della insussistenza del reato di truffa, tra cui un'autorizzazione all'esercizio dell'attività professionale extra moenia presso le strutture indicate nel capo d'imputazione, nonché la restituzione alla direzione sanitaria di alcune fatture tendenti alla dimostrazione della conoscenza da parte di quest'ultima all'esercizio di tale “illecita” attività.
Come ha deciso la Corte di Cassazione?
Sul punto la Corte di Cassazione accoglieva e confermava le argomentazioni tutte svolte dalla Corte d'Appello.
Da un lato, infatti, l'autorizzazione rilasciata dal direttore sanitario non presentava alcuna efficace delega da parte del direttore generale mentre, dall'altro, il pagamento dell'indennità mensile per le prestazioni effettuate in regime di esclusività avrebbe confortato - più che smentito - la convinzione che la direzione sanitaria non fosse affatto a conoscenza del rilascio di una autorizzazione, che invece avrebbe comportato un'automatica decurtazione stipendiale.
In questa prospettiva ecco che nella sentenza impugnata, non ravvisando alcuna violazione di legge né vizi della motivazione, rigettava le difese spiegate dal medico con conferma della sussistenza dell'ascritto reato di truffa aggravata.